Pubblicazioni

Stampa la pagina

II Convegno sul tema "L'EUROPA E L'ALTRO"

A cura di Domenico di lasio

CONSORZIO PER L'UNIVERSITA' DI CAPITANATA 2003

Prefazione

II Convegno sul tema "L'Europa e l'altro", di cui qui pubblichiamo le relazioni pervenute (non tutte, purtroppo!), si è articolato in tre sezioni distinte - politica, pedagogica e filosofica -, attivate nei giorni 3-6 ottobre 2001 a Foggia, Manfredonia e Lucera, allo scopo di approfondire la problematica in questione e fecalizzarla da tre angolazioni distinte.

Copertina Atti del Convegno L'Europa e l'Altro

La successione delle relazioni nel volume segue il criterio alfabetico, all'interno delle tre sezioni succitate.
Il tema era stato pensato dal direttivo foggiano della Società Filosofica Italiana (con la presenza e il contributo di Giuseppe Normanno, che ci ha definitivamente lasciato poco prima della realizzazione del Convegno) prima della catastrofe, del tutto imprevedibile, dell' 11 settembre 2001 a New York, prima dell'introduzione, prevista nei minimi dettagli, della moneta comune europea e all'interno di un contesto storico che vedeva e vede sempre più forte e insistente la pressione migratoria alle porte dell'Europa. In tali condizioni non ci è sembrato inutile riflettere collettivamente su tale problema, nella prospettiva, ambiziosa per la verità, di intercettare punti fermi e comuni di orientamento rispetto alla questione cruciale di un rapporto con i popoli extraeuropei che in qualche modo potesse contenere tracce visibili di quello che poi è senza dubbio il tratto distintivo privilegiato dell'umanità: il dialogo, la comunicazione simmetrica, faccia a faccia.

In particolare il Convegno ha voluto indagare i contributi della filosofia, della pedagogia e della politica europee alla questione dell'altro, nella loro storia e nei loro dibattiti remoti e recenti.
Il pensiero filosofico nell'arco della sua storia ha fatto sempre registrare, almeno nei suoi momenti più alti, un'eccedenza teorica rispetto al tempo storico in cui nasce tale da poter essere recuperata ancora oggi e proposta come linea di pensiero alternativo e orientamento per la soluzione dei problemi odierni. Sin dall'antichità classica, ad esempio, Fiatone, rispetto alla questione dell'altro, travalica il pensiero dominante del tempo che vedeva gli altri popoli vicini e lontani appunto come tali, "altri", barbari, stranieri, contro cui era legittimo configgere e scatenare guerre di ogni tipo.
Gli altri popoli confinanti o meno sono sì barbari, cioè "balbuzienti" che non riescono a parlare la lingua greca, ma essi godono delle stesse forme di costituzioni politiche, di religiosità e di educazione dei Greci. Ne La Repubblica Fiatone, parlando delle quattro forme di costituzioni ( la cretese, l'oligarchica, la democrazia e la "violenta tirannide"), rileva che nella realtà storica, più che queste forme tipiche, esistono le cosiddette forme intermedie che "si potrebbero trovare non meno numerose presso i barbari che presso gli Elleni" (Resp., Vili, 544d3).

E nelle Leggi, discutendo delle origini dello Stato e delle costituzioni in esso incardinate, si parla di una forma peculiare di costituzione, il "patriarcato", che "c'è anche ora in molti luoghi, sia presso i Greci che i barbari " (Leg., Ili, 680b3). Una tale costituzione è la condizione di uomini sì primitivi, ma semplici, che vivono, dopo la catastrofe del diluvio universale, in una società che non conosce divari di ricchezza e povertà, né guerre e ingiustizie: "nella società dove non sia presente ricchezza né povertà necessariamente i costumi, direi, saranno nobilissimi: infatti non sorge violenza né ingiustizia, rivalità ed invidie non possono nascere" (Leg., 679b7). E, rispetto alle usanze e credenze religiose, sempre nelle Leggi si annota che "al sorgere e al tramontare del sole e della luna tutti i Greci e i barbari si prosternano e si inginocchiano sia nei giorni in cui sono preda di ogni sorta di sventure sia nei giorni di fortuna" (Leg., X, 887e4).

Se ci spostiamo in avanti nel tempo, all'alba del mondo moderno, e procediamo ad un'analisi comparativa con passaggi di una lettera (4 marzo 1493) di Cristoforo Colombo al Ministro delle Finanze della Corona di Aragona, il tono cambia completamente: i nuovi popoli scoperti, gli Indios, agli occhi di Colombo appaiono più animali che uomini, privi come gli animali di qualsiasi organizzazione politica:"inviai due uomini -scrive il navigatore genovese all'indomani della sua scoperta- nelle terre, per sapere, se vi fosse un rè, o grandi città. Andarono per tre giorni, e scontrarono una infinità di piccole abitazioni con sterminate genti, ma senza governo [c.vo nostro]". E, ancora, in una lettera successiva del 14 marzo 1493 possiamo leggere:"Imperocché oltre la costa occidentale, in faccia alla quale corsi le suddette 322 miglia, vi sono quelle di due altre provincie non ancora esplorate, una delle quali gli Indiani chiamano Anam, i cui abitanti nascono colla coda [c.vo nostro]".
L'atteggiamento di Cristoforo Colombo, come si vede, rispetto alla stessa questione è diametralmente opposto a quello di Fiatone: se nel primo gli altri popoli sono sussunti sotto la categoria di bestie e come tali hanno la coda e sono "senza governo", non possono cioè vivere come gli Europei all'interno di un contesto statale, nel secondo invece gli altri popoli sono assimilati agli stessi Greci e hanno, come i Greci, le stesse forme di organizzazione politica, di educazione e di credenze religiose.

L'atteggiamento di Colombo divenne, come sappiamo, dominante nel mondo moderno e si incardinò essenzialmente nella pratica colonialistica degli Europei, in primo luogo portoghesi e spagnoli, che letteralmente si avventarono sulle nuove terre per denudarle delle loro ricchezze e deprivarle dei loro abitanti, con guerre di conquiste e di sterminio senza precedenti. Tzvetan Todorov a tal proposito osserva che "il XVI secolo avrà visto compiersi il più grande genocidio della storia dell'umanità" (La conquète de l'Amérique. La question de l'autre,1982). Dislocati gli altri popoli ai livelli delle bestie, contro di loro si legittima ogni sorta di violenza che rimane impunita, perché non esiste nei codici penali una norma che preveda una condanna per chi, ad esempio, uccide un gatto o un cane. La sensibilità, la cura per gli animali e il rispetto per le loro vite si è solo recentemente sviluppata e, tuttavia, anche in tal caso non è ravvisata colpa alcuna per l'eliminazione o il maltrattamento di un animale.

L'eccedenza teorica del pensiero filosofico per quanto riguarda la questione dell' altro si presenta, oltre che nell' antichità classica con Fiatone (e altri che qui per brevità non citiamo), anche nel mondo moderno con Montaigne, Voltaire, Rousseau, d'Holbach, Kant e altri ancora. Kant, ad esempio, commentando il "terzo articolo definitivo per la pace perpetua" (1795) cioè il "diritto cosmopolitico" (Weltburgerrecht), parla di una sorta di cittadinanza terrestre comune a tutti gli uomini, i quali sono destinati ad incontrarsi e coesistere necessariamente poiché calpestano una superficie, quella terrestre, che è sferica per natura. In particolare si tratta di un "diritto di visita (Besuchsrecht), che spetta a tutti gli uomini, cioè di offrirsi alla società in base al diritto comune al possesso della superficie della terra, sulla quale, come superficie sferica, essi non possono disperdersi all'infinito, ma devono alla fine tollerarsi (sich dulden) reciprocamente" o, il che è lo stesso, di una "universale ospitalità" concepitata come "diritto di uno straniero (Fremdlings), che arriva sul suolo di un altro Stato, di non essere da questo trattato come nemico".

Come si vede, l'atteggiamento di filosofi come Fiatone e Kant è sostanzialmente diverso dall'atteggiamento di conquistatori antichi o moderni, come Alessandro Magno o Cristoforo Colombo. Le guerre di conquista, antipersiane o antindiane che siano state, non hanno mai colto l'interesse dei maggiori filosofi che, al contrario, hanno rivolto la loro riflessione alla possibilità di convivenze universali e costruzione di società equilibrate prive di ingiustizie, guerre e conflitti, attraversate in profondità da valori eterni quali la pace perpetua. È sempre rinvenibile uno scarto consistente tra il pensiero filosofico, nelle sue forme più vere, e il pensiero politico, sepcialmente se quest'ultimo è dichiaratamente orientato al dispotismo, alla conquista e alla legittimazione dello sterminio, come nei citati conquistatori Alessandro Magno e Cristoforo Colombo.
Si potrebbe obiettare che è stato un filosofo, Aristotele, l'educatore di Alessandro Magno e che il pensiero di Colombo sugli Indios è stato pur condiviso da parecchi filosofi contemporanei: questo è vero, come è vero, d'altra parte, che Aristotele si dissocia dal suo discepolo nel momento in cui emerge la volontà dispotica di quest'ultimo e che contro il pensiero di Colombo sugli Indios si schiera una vasta gamma di pensatori di alto livello quali Montaigne e Kant.
Potremmo ancora addurre la testimonianza del filosofo Seneca che, precettore di Nerone, cerca alla fine di svincolarsi dalle grinfie feroci del suo stesso allievo di cui però rimane vittima sacrificale. Lo scarto tragicamente rimane, ineludibile l'eccedenza teorica del pensiero filosofico sull'ideologia dominante. Ed è proprio tale eccedenza a costituire il principale contributo del pensiero filosofico alla questione dell'altro ieri ed oggi.

Il contributo della pedagogia si innesta sul tronco teorico di questa eccedenza. La categoria di intercultura è tipicamente pedagogica, sgorga dalla questione dell'altro e si inquadra nei contesti educativi, scuola e università, luoghi privilegiati delle relazioni culturali e sociali fra diversi di qualsiasi natura. Le società odierne diventano multietniche o multiculturali per la presenza sempre più massiccia sui territori nazionali di "stranieri", esattamente come prevedeva Kant: la superficie terrestre è sferica e gli esseri umani calpestandola devono necessariamente incontrarsi.
Ma come coesistere e convivere, come transitare dal multiculturalismo puro e semplice all'interculturalismo? Questo è il nocciolo del problema a cui la pedagogia interculturale cerca di dare una risposta.
L'intercultura implica una relazione umana, culturale, di crescita reciproca e ciò è possibile, sì anche immediatamente nella realtà storica così come si presenta, ma in particolare nei contesti educativi dove si elaborano progetti in senso interculturale per il rafforzamento di quei legami che nella realtà sono deboli o inesistenti. La realtà storica immediata è più melting pot, miscela esplosiva di diversi, luogo privilegiato di conflitti e scontri a volte anche molto feroci e distruttivi; le realtà educative, invece, scuola e università, sono luoghi di incontro, di dialogo, di ricerca, di studio, luoghi di convergenza di diversi, che parlano delle loro esperienze, tradizioni, costumi, e che così si arricchiscono e crescono insieme.

La realtà storica attuale è profondamente segnata dalla compresenza di culture diverse su uno stesso territorio al punto tale che alcuni autori, come Jean-Loup Amselle, parlano di meticciato o mescolanza delle culture. Tale mescolanza però, anziché generare relazioni simmetriche e confronti costruttivi, oggi sviluppa perlopiù "irrigidimento delle identità e "rida vigore alle nozioni di origine, razza e d'innesto interrazziale" " {Amselle, Logiche meticce, Bollati Borignheri, Torino 1999). C'è così il rischio, avverte Franco Cambi, di una "morte delle culture", che però può essere scongiurato, "nel tempo del meticciato", da forme alternative di scambio e di dialogo interculturale:"L'acculturazione come trasfigurazione [delle culture] possiamo fissarla attraverso i caratteri propri dell'incontro, dello scambio, dell'ascolto e dell'innesto reciproco, che sono poi i contrassegni stessi di quel processo di "mescolanza" che è l'acculturazione" (Franco Cambi, Intereultura:fondamenti pedagogici, Carocci editore, Roma 2001).
E sul tema dell'incontro e dello scambio nella relazione interculturale insiste Franca Finto Minerva che assimila il pensiero interculturale al pensiero della pace e del dialogo: "Il pensiero che nutre la pace è un pensiero attivo e non passivo, problematico ed antidogmatico, un pensiero interculturale, relazionale e dialogico, disponibile alla collaborazione, alla solidarietà, al confronto e alla cooperazione. Un pensiero 'nutrito' dall'insegnamento di Gandhi, che individua proprio nel principio deirahimsa (non desiderio di fare del male) il fondamento di principi e di pratiche d'azione non violente, indispensabili per gestire la complessità della condizione umana, oggi più che mai" (Franca Finto Minerva, L'intercultura, Editori Laterza, Roma-Bari 2002).

Nel settore più propriamente politico a tali forme alternative di scambio fa appello John Rawls, che distingue tra pluralismo ragionevole e pluralismo puro e semplice:"Noi cerchiamo -avverte Rawls- una concezione politica della giustizia adatta a una società democratica, vista come sistema di equa cooperazione fra cittadini liberi e uguali che, in quanto politicamente autonomi [...], accettino volontariamente i principi di giustizia pubblicamente riconosciuti che specificano gli equi termini della cooperazione. La società in questione, però, è una società nella quale coesistono dottrine comprensive diverse, tutte perfettamente ragionevoli; questo è il fatto del pluralismo raionevole, distinto dal fatto del puro e semplice pluralismo " (Rawls, Politicai Liberalism, Columbia University Press, 1993, tr.it. di Gianni Rigamonti). Questo è l'obiettivo del Liberalismo politico dì Rawls, come, pensiamo, delle società democratiche in generale: i cittadini liberi e autonomi devono condividere alcuni princìpi di fondo pubblicamente riconosciuti, fissati cioè in un testo costituzionale: l'area di condivisione di questi princìpi è chiamata "consenso per intersezione" (overlapping consensus). Ora, annota sempre Rawls, succede che "in molte situazioni storiche un consenso per intersezione di dottrine ragionevoli può non essere possibile; può accadere che i tentativi di realizzarlo siano schiacciati da dottrine comprensive irragionevoli o addirittura irrazionali (e anzi folli, qualche volta)"(Ib).

A distanza di circa dieci anni da tali considerazioni del politologo americano, possiamo dire che le situazioni storiche nelle quali il "consenso per intersezione" non è possibile, non è possibile cioè la cooperazione democratica, si sono moltiplicate, perché si è rafforzata la tendenza alla radicalizzazione delle "dottrine comprensive irragionevoli", che si sono trasformate in vere e proprie strategie politiche di assoluta follia e pura distruttività, tutte rinvenibili nei fondamentalismi religiosi e politici. Questi si caratterizzano per la loro assoluta intransigenza, per l'esclusione dell'altro, per la ipostatizzazione delle loro dottrine: ed è chiaro che, in tale contesto di rifiuto radicale, il dialogo interculturale perde quota e sì inabissa senza speranza. Tuttavia, l'intervento politico per il ripristino del confronto e del rawlsiano "consenso per intersezione" rimane decisivo, se c'è ancora una speranza per la fuoriuscita dell'umanità dalla condizione descritta da Hobbes della guerra generalizzata, del bellum omnium contra omnes.
Hobbes, per tale fuoriuscita, aveva escogitato un contratto politico tra le persone minacciate di morte nel quale si prevedeva la consegna di tutti i poteri dello Stato, meno il potere di vita e di morte sui cittadini, ad uno solo dei contraenti. Sennonché in tale contratto i cittadini, pur avendo garantita la sopravvivenza biologica, diventano sudditi del loro President, del loro Fuhrer, della loro guida politica, privi di possibilità di scelta, di critica, di pensiero divergente, di parola, di stampa, di comportamenti autonomi, privi di tutte quelle libertà moderne che per i cittadini sono un po' come l'ossigeno che respirano.

Occorre, pertanto, escogitare un altro tipo di contratto con i cittadini, non certamente, nell'epoca dell'informatica, telematico o televisivo perché tutto ciò è evanescente, virtuale, menzognero, inesistente: un tipo di contratto reale e concreto, che vede i contraenti discutere direttamente, faccia a faccia, e nel quale, come in Hobbes, sia sì garantita la sopravvivenza biologica, la security personale, ma anche tutti gli altri diritti naturali non scritti teorizzati da Locke e dai suoi epigoni, attraverso Kant, fino al liberalismo politico di Rawls. In virtù di tali diritti naturali le leggi dello Stato, fatte dal Parlamento, non possono ad essi contravvenire. Se, ad esempio, un Parlamento emana una legge per legittimare la tortura fisica come pena, tale legge è innaturale, premoderna, contro cioè il diritto naturale moderno all'integrità corporale, e in tal senso si invalida da sé, sì delegittima. E così anche, volendo fare qualche altro esempio, se un Parlamento nazionale propone una legge per legittimare un falso qualsiasi, essa di per sé si invalida in quanto contravviene ad un elementare diritto naturale per cui il falso è falso e non può essere inverato dallo Stato e il vero rimane vero e non può diventare falso. Un falso, cioè, non si può legittimare come vero e viceversa. E così pure per un altro diritto naturale, teorizzato da Kant e sopra citato, il diritto cosmopolitico: se un Parlamento nazionale propone l'abolizione di tale diritto in virtù, ad esempio, della difesa della razza e della sua purezza contro ogni forma di contaminazione razziale, tale proposta di legge, che pure può diventare legge dello Stato se approvata dal Parlamento (come le leggi di Norimberga -1935-, nella Germania nazista), si delegittima da sé come legge contraria ad un fondamentale diritto naturale qual è il diritto cosmopolitico o diritto di visita.

Hobbes, in qualche modo, aveva dimenticato l'esistenza o la preesistenza politica dei diritti naturali che il moderno Stato di diritto deve tutelare: vogliamo solo sperare che tale dimenticanza sia stata un fatto contingente, relativo al tempo di Hobbes, perché se così non fosse, se cioè essa si fosse prolungata, anche solo a tratti, fino ad oggi, certamente non potremmo più dormire sonni tranquilli, per pensare nuovi termini e possibilità di contratti politici più moderni, equi e conformi ai diritti naturali. Sul tronco di tali diritti si innesta, ribadiamo, la "universale ospitalità" kantiana o il "diritto cosmopolitico", anche e soprattutto nell'era della globalizzazione, nella quale i popoli si incontrano e si scontrano incessantemente. Osserva Salvatore Natoli sulla scia di Amselle:"L'ibridazione è un destino, il meticciato è il futuro della storia, la mescolanza genererà la nuova civiltà. Questa è la mutazione positiva e possibile della geopolitica" (S. Natoli, Stare al mondo, Feltrinelli, Milano 2002). Ed Edward W. Said dichiara, dal canto suo, che scopo del suo Orientalism (1978) "non era tanto eliminare le differenze -chi mai può negare il carattere costitutivo delle differenze nazionali e culturali nei rapporti tra esseri umani?- quanto sfidare l'idea che le differenze comportino necessariamente ostilità, un assieme congelato e reificato di essenze in opposizione" (Postfazione 1994). Forse, alla fine, ed è davvero auspicabile, avrà ragione Kant e la sua saggia riflessione etica sulla sfericità della terra, per cui i popoli, non potendo vivere separati e distanti, si dovranno prima o poi convincere del loro destino, che cioè sono naturalmente spinti all'incontro più che allo scontro, alla convergenza più che alla divergenza, alla tolleranza reciproca, al vivere insieme, l'uno accanto all'altro.

 

ANTONIO Muscio (Rettore Università di Foggia) - Un progetto migratorio comune per l'Unione Europea
[...] uomini migranti, alla ricerca di una sicurezza economica e sociale che non trovano nel loro paese. Ciò significa, fra le altre cose, che la valenza stessa di "unione europea" non può non fare riferimento alla specificità di quella cultura d'Europa che affonda le sue radici nel Mediterraneo. Dunque, la costruzione di una Unione Europea deve essere in grado di prevedere nel suo progetto anche le esigenze di tutti i popoli che costeggiano il Mediterraneo, a partire appunto dalla gestione del problema migratorio.
Venendo, infatti, a oggi -a tempi a noi più vicini- sappiamo bene come l'Europa si trovi al centro di intensi flussi migratori da est, da sud, da ovest, che la mettono a contatto con le mille potenzialità, rna anche i mille problemi, del mondo intero. Alle "antiche" diversità occorre oggi aggiungere quelle nuove, quelle che, in particolare, le genti del sud del mondo e dell'est europeo stanno portando nelle nostre città, nelle nostre scuole ed università, nei luoghi di lavoro, di riposo e di svago.
Ancora una volta, l'Europa si trova ad essere luogo privilegiato di incontro e di confronto. Esso deve mirare, dunque, innanzitutto a far emergere la positività e la produttività del suo essere -storicamente- un luogo di incroci e di incroci di più punti di vista, di più fedi, di più culture.

 

Il fenomeno migratorio, oggi

Le previsioni demografiche ridisegnano radicalmente il volto dell'Europa dell'immediato futuro a seguito della reciproca influenza di due fattori:

  • Da una parte, il crollo delle nascite e l'allungamento della vita media nel Vecchio Continente, soggetto a un progressivo invecchiamento che determinerà, nel 2020, la diminuzione della popolazione attiva di circa otto milioni di unità, con un aggravio significativo sul sistema pensionistico e sanitario particolarmente significativo proprio in Italia, dove il rapporto di dipendenza degli anziani rispetto alla popolazione attiva è stimato nella percentuale del 30,4%;
  • Dall'altra parte, l'aumento della popolazione dei paesi dell'Africa settentrionale -in settantuno dei quali il 40% della popolazione ha meno di quarantenni- e la conseguente pressione migratoria da questi esercitata sul continente europeo. Una linea di tendenza destinata a rafforzarsi, se si considera che il tasso di fecondità delle donne africane è rispettivamente di 7,5 e 4 figli contro 1' 1,2 delle donne italiane e occidentali in genere.
  • Si tratta di eventi e di variabili molteplici e strettamente legate tra loro, che hanno come conseguenza comune l'emergere della consapevolezza del fatto che l'Europa -nel bene e nel male- non possa comunque fare a meno degli immigrati e che, conscguentemente, diventa necessaria una seria politica dell'immigrazione, che superi una visione puramente assistenziale o meramente burocratica del fenomeno ma che studi le forme e i modi di una reale e costruttiva integrazione. Si tratta, in tal modo, di ipotizzare l'idea di un'"Europa casa comune" piuttosto che di un'"Europa fortezza", disponibile a lasciarsi contaminare, come ha già fatto in passato, da più popoli e culture, tracciando in tal modo orizzonti realmente interculturali.
    Il divario esistente tra i paesi a economia evoluta e quelli ed. in via di sviluppo, piuttosto che diminuire, si è negli ultimi tempi ulteriormente accentuato: se negli anni '60 i primi erano trenta volte più ricchi, ora lo sono sessanta volte di più. A fronte di 800 milioni di persone che possono contare su di un reddito dignitoso, una massa ingente di persone -più di quattro miliardi- soffre la fame e vive nella più completa indigenza. I continenti più penalizzati sono innanzitutto l'Africa e l'Asia, oltre che l'Europa dell'Est e l'America latina, paesi nei quali la miseria e l'infinita povertà si intrecciano con fenomeni di sfruttamento e di vera e propria schiavitù. Il divario tra paesi ricchi e paesi poveri è, dunque, aumentato e si è ulteriormente complicato. La contrapposizione tra livelli di benessere e livelli di estrema povertà è aggravata per quanto riguarda l'Italia, dal fatto che tale contrapposizione si verifica tra paesi che sono a pochi chilometri di distanza, rendendo così ancor più microscopicamente evidente tale divario e determinando quasi obbligatoriamente il desiderio di poterlo colmare.
    Un ulteriore fattore distintivo e peculiare della società contemporanea è dato dalla mondializzazione degli scambi economici e del sistema della produzione. Tale globalizzazione ha profondamente modificato la logica e la pratica del sistema produttivo, determinando, ad esempio, lo spostamento di alcune fasi della produzione nei paesi in via di sviluppo e ingenerando in tal modo una sorta di "competizione mondiale" tra lavoratori occupati nelle diverse parti del mondo. La globalizzazione dei mercati in tal modo, rischia di non limitare la portata del fenomeno migratorio ma anzi di espanderla se non si traduce in un miglioramento generalizzato (piuttosto che in uno sfruttamento) dei lavoratori dei paesi del sud del mondo, costretti comunque ad emigrare alla ricerca di condizioni migliori di vita.
    L'Unione europea può, in tal senso, fare fronte comune imponendo la generalizzazione di un sistema di garanzie minime per tutti i lavoratori, in qualunque parte del mondo realizzino il loro lavoro, controllando che i prodotti realizzati non contengano "tracce" più o meno visibili di sfruttamenti vari, a cominciare da quello, purtroppo ancora presente, del lavoro minorile.

    Gli obiettivi del progetto migratorio europeo

    Siamo, dunque, in presenza di uno straordinario moltiplicarsi di fattori che, provocando la crisi dei confini tradizionali (nazionali, economici, sociali, culturali, individuali) aprono a nuove e difficili contraddizioni, conseguenti al paradosso del dilatarsi e del contemporaneo restringersi delle occasioni di contatto e di comunicazione interpersonale.
    È in questa situazione che l'Italia -insieme agli altri paesi europei- si trova oggi ad affrontare le conseguenze (positive e negative) della generalizzata diffusione del fenomeno migratorio. La presa d'atto di tale situazione dovrebbe indurre a scelte europee comuni (di carattere legislativo, culturale e formativo) più coraggiose ed esplicite, pena il riemergere di nuove tensioni razzistiche, di un allargamento e di un maggiore radicamento di pregiudizi e stereotipi, che dalle persone diverse per colore della pelle e suono della lingua si allargano fino a comprendere tutte le molteplici forme della diversità (di status, di età, di ceto sociale, di genere, di pensiero, ecc.).
    In effetti, la nostra società è a un bivio: o si impegna a stabilire un equilibrio tra tutte le differenze che popolano il pianeta (esaltandone la positività) o si rassegna a vivere in un perenne stato di guerra. Ciò comporta, innanzitutto, l'assunzione di un atteggiamento realistico, finalizzato a non nascondere ed eliminare la difficoltà e i problemi (causa di autentiche incomprensioni) ma nello stesso tempo ad evitare le mistificazioni del discorso multiculturale e gli appelli generici ai buoni sentimenti. Bisogna partire, in tal senso, dal riconoscimento che differenze così radicali (come quelle che distinguono un popolo da un altro) si prestano inevitabilmente al conflitto e richiedono quindi spazi adeguati di dialogo e di mediazione.
    Un'autentica cultura dell'integrazione, del confronto e della cooperazione europea si fonda e deve poter contare sul rispetto delle differenze ma anche sulla opportunità e sulla produttività dell'intreccio, del confronto e dello scambio tra culture; essa vive e si alimenta della disponibilità -intellettuale e valoriale- a riconoscere l'altro in sé e sé nell'altro, senza pregiudizi e stereotipi. Troppo spesso, infatti, le forme e le modalità dell'incontro con la differenza etnica e culturale sono viziate proprio dalla paura di quanto è fuori dagli schemi rassicuranti della propria cultura, ostacolando e precludendo ogni possibilità di confronto e di positiva cooperazione.

    Il secondo passo è quello di riconoscere ed evidenziare i vantaggi del fenomeno migratorio, che non è solo quello economico (per la necessità di coprire con manodopera immigrata ruoli professionali lasciati liberi dalla popolazione autoctona) ma è legato all'arricchimento che provoca in ciascuno di noi l'incontro con storie e biografie diverse dalle proprie. L'altro percepito nella sua differenza, ci aiuta a riconoscerei nella nostra unicità e, pertanto, nella nostra stessa differenza. L'identità (singola e dei gruppi) è, infatti, sempre un evento intersoggettivo e interculturale, nel senso che si costruisce e si struttura nell'interazione con l'alterila. Solo recuperando e valorizzando la costitutiva natura del popolo europeo di sapersi aprire alle differenze, di saper essere naturalmente disposti a incontrare e a far dialogare le diversità, noi cittadini europei saremo uniti non solo da un passaporto comune e da una comune moneta ma da una condivisione di principi, di valori e di intenti, come d'altro canto la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea approvata a Nizza nel 2000 lascia ben sperare. Lo possiamo fare potenziando, come già detto, quanto di meglio la cultura e la storia europee ci hanno lasciato e che trovano nel sigillo della democrazia il denominatore comune. Una democrazia che va de-territorializzata, nel senso che va estesa a più popoli e a più culture per farne -come dice Habermas- la patria costituzionale dell'uomo contemporaneo. Una democrazia idonea a salvaguardare, contemporaneamente, l'universalismo della cittadinanza (Edgar Morin, non a caso parla di cittadinanza terrestre) e il carattere pluralistico e differenziato della società civile. L'idea comune che deve guidare le scelte in tema di politica migratoria europea -su cui fondare- poi le differenti caratterizzazioni a livello di singolo Paese - deve fondarsi sulla convinzione che, in una società complessa qual è quella attuale, le differenze possono convivere senza dar luogo a conflitti distrutlivi e disgreganti solo se riconoscono norme comuni, valori condivisi e un vero e proprio catalogo di diritti/doveri uguali per tutti. La cittadinanza europea - a sua volta collocata in quella mondiale- deve saper vivere l'appartenenza alla "casa comune europea" come la cornice in cui le differenze si intrecciano e delineano i contorni dell'identità pubblica dei cittadini europei (a qualunque nazionalità appartengano e da qualunque paese provengano) che superi, senza rimuoverle o negarle, le appartenenze particolari. Come dire che, a livello di singoli cittadini europei così come delle istituzioni europee (pubbliche e private), è indispensabile fare riferimento a un sistema di valori comuni di riferimento che sappiano dialeticamente far interagire i diritti dell'uomo come individuo e come cittadino. Come individuo, infatti, ciascun uomo è portatore di determinate credenze che gli derivano dalla sua collocazione identitaria, ma come cittadino - come cittadino europeo - egli deve essere consapevole del fatto che esiste una visione generale, pubblica, determinata da un'insieme di regole comuni e vincolanti per tutti, proprio al fine di rendere possibile un progetto stabile ed equilibrato di vita collettiva.
    Dove costruire ed esercitare tali valori comuni, dove, cioè, far interagire intercultura e democrazia trasformandola in pratica quotidiana di pensiero e di azione? Ovviamente le istituzioni formative - dalla scuola di base all'università - rappresentano lo spazio pubblico privilegiato dove imparare a sperimentare il pluralismo, dove potersi confrontare con opinioni e punti di vista differenti e dove poter argomentare e sostenere il proprio punto di vista.
    Nelle istituzioni scolastiche ed universitarie l'incontro con gli altri si realizza attraverso rapporti reali, attraverso il confronto con i coetanei, con i docenti, con i dirigenti, con soggetti e istituzioni esterne virtuali, attraverso l'uso competente dei mediatori culturali quali sono i libri di studio (attraverso i quali conosciamo gli altri che abitano altrove, sia nel senso del tempo che dello spazio) e oggi anche il computer e internet (capaci di farci dialogare in tempo reale con persone che vivono al capo opposto del pianeta).
    La scuola e l'università rappresentano dunque la palestra ideale per la costruzione di un pensiero e di una forma mentis aperta al confronto e al dialogo a partire innanzitutto dalla conoscenza (reale e non mistificata e stereotipata) degli altri. Ancora una volta non va dimenticato il contributo importante della storia del passato, che ci insegna a valorizzare il ruolo di tali istituzioni ricordandoci, ad esempio, quello che le università sono state e quello che hanno rappresentato in termini di diffusione e di crescita dei singoli e delle collettività: a partire dalle università medievali italiane e francesi alle accademie scientifiche anglosassoni del XVII e del XVIII secolo; dalle università di ricerca del '700 e dell'800 ai grandi laboratori di ricerca delle università contemporanee.

     

    PER UNA POLITICA MIGRATORIA COMUNE

    Antonio Pellegrino (Presidente della Provincia di Foggia)

    Prof. Domenico di lasio, Monsignor Arcivescovo, Signor Sindaco, Magnifico Rettore, autorità, signore e signori, comincia oggi una quattro giorni ricca di appuntamenti di rilievo, che si svolgeranno in tre diversi centri della Capitanata; si tratta di un evento culturale di grande importanza, che la Provincia di Foggia è lieta di avere contribuito a realizzare. Quando gli organizzatori hanno ideato e promosso questo incontro, nessuno poteva immaginare che esso si sarebbe svolto in un momento in cui il quadro delle relazioni internazionali sarebbe stato l'attuale. Il giovane secolo non aveva ancora conosciuto una pagina così burrascosa, così carica di sfide. Giacché, si badi, benché sia l'incombenza di un'operazione militare a tenere con il fiato sospeso il mondo, non di sola guerra si parla in questi giorni, ma piuttosto del complessivo modo di rapportarsi dell'Occidente rispetto al resto del mondo.
    Non è un caso, a mio parere, che accanto ai nervi saldi mostrati dalla maggior parte dei capi di Stato, a cominciare dal Presidente Bush, accanto ai commoventi sforzi di pace del Pontefice e di altri grandi capi religiosi, siano apparsi anche in Occidente gli spiriti animali del fondamentalismo e dell'intolleranza, si tratti di quelli espressi dalla follia criminale di chi considera l'ipotesi di usare la bomba atomica contro l'Afghanistan o dalla garrula sprovvedutezza di chi si mette a fare classifiche di civiltà, forse convinto di trovarsi di fronte alle passioni della Champions League e non alle tragedie della storia.

    Le ansie che in questo momento percorrono quanti di noi credono nell'uomo e nel suo destino devono indurai, malgrado la limitatezza delle nostre capacità, ad affinare ulteriormente il nostro sforzo di analisi e di riflessione in incontri come questo, perché una cosa è certa: l'Europa, le Europe come giustamente le chiama il professor Vacca, non sono una variabile indipendente di questo scenario, non possono chiamarsene fuori. Non si tratta, badate bene, delle previsioni dei trattati internazionali o dell'ovvia considerazione che la mattanza di New York riguarda un popolo ed un paese amico, della cui cultura e delle cui passioni è intrecciata anche la nostra vicenda, il nostro comune sentire.
    È che abita in Europa, in questo continente così particolare da non avere neppure un'identità geologica precisa, il laboratorio di ogni possibile convivenza, passa per l'Europa ogni percorso plausibile dei modelli di coesistenza e di scontro dei popoli, delle fedi, delle civiltà.

    Non mi sfugge il rischio che questa impostazione possa soffrire di eurocentrismo, che risenta della nostalgia di un primato mondiale perso per sempre in un giorno di luglio del 1914 in una strada di Sarajevo; ma credo che l'attestazione della nevralgicità di questo continente non sia solo prodotta da una sorta di decaduta nobiltà. Ma tale resterebbe se non ci preoccupassimo di definire il nostro oggetto, di chiederci cos'è quest'Europa che nel titolo del nostro convegno intendiamo mettere in relazione con l'Altro.
    A me pare che si tratti di una grande nazione incompiuta. Non uso questo termine a caso: è vero che l'impianto dell'Unione Europea è ancora largamente confederale, è vero che il processo di armonizzazione delle leggi e degli ordinamenti è ancora lungo, è vero -soprattutto- che non esiste ancora una difesa comune europea fuori dell'ambito della Nato; ma con l'avvento dell'Euro, con la pratica armonizzazione delle economie dettata dal patto di stabilità, con la piena applicazione del trattato di Schengen, è difficile dire che l'Europa non è una nazione. Sarebbe come negare la qualifica di nazione agli Stati Uniti d'America alla luce delle innegabili profondissime differenze che ci sono fra il New Jersey e il Texas, ad esempio.

    Perché "incompiuta"? Non solo per i ritardi e le carenze che ricordavo prima, per la ancora relativa debolezza delle istituzioni sovranazionali europee, ma anche perché l'Unione Europea è ancora troppo piccola e stretta per svolgere il ruolo che la storia e la geopolitica le assegnano. Esiste all'interno dell'UE il problema dei Paesi che per ragioni diverse non aderiscono all'euro, dalla Grecia alla Gran Bretagna; ed esiste l'altro, gigantesco, dell'allargamento ad Est, di cui fra l'altro si occuperà un altro convegno che si svolgerà domattina all'Università di Foggia.
    La politica migratoria comune non può non tenere conto di questi due fenomeni; la nostra speranza è che essa abbia sempre a mente l'antico adagio "surtout pas trop de zèle", che rifugga cioè dagli eccessi. Se ad ogni rapina in villa si propone di prendere a cannonate i gommoni e se ad ogni immagine di stenti e di disperazione che passa in tv chiediamo di aprire del tutto le frontiere non faremo molta strada.
    Serve un atteggiamento flessibile, che non punti ad uno strumento soltanto; che soprattutto affronti il toro per le corna e ponga con chiarezza due postulati: il primo è che l'immigrazione ci serve; ci serve sul piano culturale, del confronto identitario, e ci serve sul piano economico, specialmente se il ciclo produttivo, come da tutti auspicato, dovesse conoscere una nuova fase espansiva, quello che un po' avventatamente viene chiamato "secondo miracolo italiano".
    Il secondo, per noi ancora più importante, è che il successo di una politica migratoria ponderata passa per un'attenzione molto maggiore dell'Unione al mezzogiorno d'Italia e d'Europa. Sapete che questi territori, indiscutibilmente europei per tradizioni, cultura e civiltà, non lo sono sul piano dell'economia, dello sviluppo, delle dotazioni infrastnitturali.
    Nella debolezza congenita del Mezzogiorno d'Italia c'è anche il principale limite della linea di frontiera fra l'Unione Europea e il bacino del mediterraneo. Da questa attenzione, che non può essere limitata al pur importantissimo strumento dei Por, dipende la concreta praticabilità di una politica migratoria comune basata sui valori dell'integrazione e dell'equilibrio e non dello scontro.
    Vi ringrazio.

    Garganonet  Piazza delle Rose, 3 71043 Manfredonia (Foggia) Italia  

     

    Contattaci